Per i miei genitori, l’Europa è stata un ideale: la pace che avrebbe messo fine alla morte e alla distruzione generate da due guerre mondiali. È pur vero che l’Europa era un sogno di pochi, ma era un sogno che ha avuto il potere di assicurare il periodo ininterrotto di pace più lungo nella storia di un continente martoriato da secoli di guerre e di violenze. Una pace che ha preso piede dapprima in Europa occidentale, per poi espandersi a est dopo la fine della Guerra fredda.
Per me, l’Europa è stata l’opportunità di una vita: dall’emozione dell’Interrail da adolescente, agli studi in Gran Bretagna, dal primo lavoro a Bruxelles e al matrimonio in Spagna, per finire, più banalmente, con il sollievo di non dover spegnere il roaming ogni volta che un volo mi portava in una città dell’Unione. L’Europa, per me e per molti – ma non per tutti -, è stata un lusso.
Ma per mio figlio di sette anni, quale sarà il significato del progetto europeo? Sarà semplicemente il ricordo sbiadito delle storie d’infanzia dei nonni? O sarà forse il risentimento nei confronti dei suoi genitori, entusiasti di lussi che lui non potrà vivere allo stesso modo? Il progetto europeo lo lascerà indifferente o addirittura scettico e risentito, visto e vissuto come un relitto di un passato che non ha avuto la fortuna di vivere?
Non penso. Per mio figlio, così come per ogni cittadino europeo nel ventunesimo secolo, l’integrazione europea sarà ancor più vitale di quanto non lo sia stata per le passate generazioni. Il progetto europeo, dall’essere l’ideale di pochi, e un lusso per molti, diventerà una necessità per tutti.ì
Ecco perché. Gli europei sono certamente molto diversi, a volte divisi. I loro interessi specifici a volte convergono, spesso differiscono, e altre volte divergono e si contrastano. La storia e la geografia non possono essere modificate. Eppure condividiamo gli stessi bisogni fondamentali: la sicurezza, il benessere e la libertà. Nessuno di questi bisogni basilari può essere soddisfatto, nel tempo in cui viviamo, senza l’Unione europea.
La nostra sicurezza non può essere data per scontata oggigiorno. Siamo minacciati internamente da reti criminali e terroristiche; siamo circondati da Stati fragili o falliti; siamo drammaticamente ripiombati in un’era dominata dalla geopolitica, dall’assertività russa a est alla crescente competizione tra Stati Uniti e Cina, in cui una guerra commerciale e tecnologica cela lo spettro di un possibile confronto militare negli anni a venire.
Di fronte a queste sfide, cosa possono fare da sole l’Italia, o la Francia, la Germania o altri Paesi? Ben poco. In ambito di sicurezza, e ancor più di difesa, le dimensioni contano. E ogni Stato membro dell’Unione, inclusi i più grandi, è semplicemente troppo piccolo su scala globale per poter proteggere i propri cittadini.
Non a caso, proprio in questi anni, nonostante il divampare di nazional populismi, gli europei, per la prima volta nella loro storia, hanno fatto i primi passi verso un’Europa della difesa. Tentare la via verso un’autonomia strategica europea non è un vezzo, né tantomeno un insulto agli Stati Uniti, l’alleato principale degli europei. È invece una necessità, e probabilmente la condicio sine qua non per un sano partenariato atlantico nel ventunesimo secolo.
Ciascun europeo tiene al proprio benessere: alla qualità del proprio lavoro così come del tempo libero, all’istruzione e alla sanità, al cibo che mangia, all’acqua che beve e all’aria che respira. In un mondo complesso e interconnesso, niente di tutto questo può essere garantito da Stati di piccole e medie dimensioni come i nostri. Immaginate di dover negoziare un equo accordo di libero scambio che garantisca il benessere dei cittadini olandesi o italiani se i Paesi Bassi o l’Italia dovessero trattare da soli con Stati Uniti, Cina o India. Proviamo a immaginare cosa succederebbe se giganti della tecnologia come Microsoft, Amazon o Google non dovessero negoziare tasse e regolamentazione della concorrenza con una Commissione europea che rappresenta 500 milioni di consumatori, ma con Lisbona, Nicosia o Vilnius. E riuscirebbero 28 Paesi europei piccoli e divisi a salvare il pianeta dal cambiamento climatico e dal degrado ambientale? Ovviamente no.
Ultima, ma certamente non meno importante, è la nostra libertà, sancita nei diritti e nelle regole delle nostre democrazie. Non siamo nemmeno lontanamente giunti alla fine della storia: abbiamo abbandonato l’illusione di un mondo in cui i Paesi convergono verso la democrazia liberale e in cui l’Unione europea aveva come missione aiutare gli altri a diventare più simili a lei. Oggi sappiamo che diffondere generosamente la nostra bontà attraverso le politiche di allargamento e di vicinato e la promozione di organizzazioni regionali modellate sulla nostre è un sogno irrealizzabile.
Oggi, naturalmente, queste politiche esistono ancora, anche se caratterizzate da un maggiore pragmatismo. Eppure devono affrontare forze contrastanti: non dobbiamo più solo proiettare i nostri valori verso l’esterno, ma anche – una questione forse ancora più importante – proteggere i nostri diritti e le nostre libertà dall’insidioso soft power di altri modelli di governance visti con crescente interesse e ammirazione da alcuni segmenti della nostra popolazione. Perché la verità è che alla base del soft power si trova, in tutta franchezza, il potere stesso.
Fino a quando sistemi politici illiberali, autoritari e autocratici saranno visti come un successo dai nostri concittadini, sia in termini economici (la Cina) sia strategici (la Russia), tali modelli alternativi costituiranno un’attrattiva irresistibile per le nostre società. Questa capacità di attrazione è aiutata da politiche attive, dalle campagne di disinformazione condotte dalla Russia alla mastodontica Nuova Via della seta promossa dalla Cina.
Ma, a volte, il puro potere di attrazione è sufficiente: basti pensare a Italia e Russia oggi. Presumibilmente, Mosca non ha bisogno di investire molte risorse per persuadere l’attuale governo italiano a sostenere le sue politiche e il suo approccio. L’ammirazione per l’”uomo forte” Vladimir Putin basta ad attirare i leader nazionalisti nell’orbita del Cremlino. Per proteggere i diritti e le regole che garantiscono le nostre libertà come individui e come società, ancora una volta, le dimensioni contano. L’unico modo per proteggere le nostre democrazie liberali e continuare a essere un modello per altri Paesi è mostrarci uniti.
Questo mi porta all’ultimo punto della mia riflessione, che riguarda la governance globale. Stiamo vivendo in un’epoca di profonda trasformazione globale. Il potere si sta spostando da ovest a est, si sta diffondendo oltre i confini nazionali, non risiede più in determinate entità, ma scorre tra di loro, attraversando terra, mare, aria, spazio e cyberspazio grazie a reti e a nodi.
Istituzioni, regole e regimi costruiti secondo la configurazione precedente – l’ordine liberale internazionale, se vogliamo – dovranno inevitabilmente evolversi per riflettere questo profondo cambiamento del sistema globale. Gli attori statali e non statali che non condividono affatto i nostri interessi avranno per forza di cose un ruolo più centrale nel plasmare l’ordine – o disordine – che verrà. Anche qui, le dimensioni contano: solo se saremo uniti come europei ci spetterà un posto al tavolo delle grandi potenze. Frammentati e divisi saremo ridotti a una voce sul menu.
E se non restiamo uniti, mio figlio e i vostri figli saranno relegati al ruolo di spettatori, invece che attori, del loro futuro.
Articolo a cura di Nathalie Tocci (Affari Internazionali) tratto dal keynote address alla conferenza “State of the Union”, organizzata dal Clingendael Institute in collaborazione con il ministero degli Esteri olandese e il Parlamento europeo il 25 gennaio scorso a L’Aia.